“Fare una storia della Resistenza attraverso il cibo è entrare nel vivo dell’esistere. […]. Questo libro ci dà l’opportunità di pensare,
vedere, quante quotidiane scelte ci sono da fare per essere uomini. A partire da cosa ci mettiamo in bocca, e per finire alle parole che da quella stessa bocca escono.”
Così scrive Vinicio Capossela nella bella introduzione al volume curato da due giovani storiche, Alessandra Carrara ed Elisabetta Salvini, esperte rispettivamente di storia dell’alimentazione e di storia delle donne.
Pubblicato dall’editore Fausto Lupetti nel 2015, Partigiani in cucina attinge a storia e letteratura insieme per una ricostruzione della Resistenza davvero particolare, come spiegano le autrici nell’introduzione: dopo una serie di fotografie in bianco e nero, che aiutano il lettore a cogliere anche visivamente le “atmosfere partigiane”, ogni capitolo ad impianto storico viene affiancato da uno letterario-antropologico, così da entrare “per immersione” – attraverso le parole dei narratori e dei testimoni – nelle condizioni di vita di quei mesi così concitati e risolutivi.
“Dai 380 chili di pasta al burro offerti dai fratelli Cervi a tutto il paese di Campegine per festeggiare la caduta del regime – spiegano le autrici -, passando per le lasagne della ricostruzione gustate da Teresa Noce di ritorno dai campi della morte, fino ai 35.000 bambini nutriti dalle donne emiliane nel duro inverno del ’45: questa è l’inusuale prospettiva che adotteremo per parlare di Resistenza attraverso il cibo.
L’Agnese della Viganò, il partigiano Johnny di Fenoglio, Pin di Calvino, Enne2 di Vittorini, i “piccoli maestri” di Meneghello e tanti altri personaggi della letteratura ci accompagneranno in una narrazione del tutto inedita, fatta di pasti consumati in fretta, di fame di libertà, del bisogno spasmodico di nutrirsi e delle tante, troppe difficoltà nell’organizzare l’approvvigionamento quotidiano delle risorse.
[…] il discorso sul cibo non si ferma al semplice appagamento di un bisogno primario, a un asettico meccanismo di mancanza e replezione, e, se fosse limitato a questo, sarebbe tema di scarso interesse. Le esperienze vissute, mediate dalla pagina letteraria, restituiscono invece l’impressione che il cibo, in misura finora impensata, abbia svolto un ruolo fondante e costitutivo, non solo sul piano materiale, ma, cosa che più importa ai nostri fini, su quello morale, psichico e per certi versi perfino politico, e l’abbia fatto sia al negativo (mediante la sua assenza: con la fame, l’ossessione, il ricatto) che al positivo (rivestendo una funzione di conforto, di cura, di mediazione). Emerge la sensazione che il mangiare insieme abbia avuto un valore altamente simbolico, socializzante e formativo (l’etimologia della parola compagno – dal latino medievale cum panis: colui che mangia il pane con un altro – è infatti radicata nella condivisione del pane); che il distribuire generi alimentari alle popolazioni stremate abbia costituito un momento di riavvicinamento e di accettazione reciproca tra partigiani e civili; ancora, che il trovare un pasto caldo cucinato da mani amorevoli o consumato con i compagni abbia dato spesso la forza per continuare nella lotta senza arrendersi alla disperazione, anche nel terribile, ultimo inverno.”
Al termine della lettura risultano quanto mai efficaci le considerazioni di Vinicio Capossela sulla prospettiva di fondo che ispira il libro.
“Cibo e resistere. Cibo ed esistere. Cibo e sacrificio. Cibo e comunione. Sono tante le relazioni su cui indagare tra le vicende della Resistenza e la necessità del nutrirsi. Il cibo rientra in tutto quel mondo di scelte che fanno del nostro esistere un fatto anche politico. […] L’avvio di ogni conflitto passa per la restrizione del cibo. Affamare la comunità è il preludio della sua distruzione. Resistere è appunto esistere. La riduzione del cibo è l’avvio della discesa, la retrocessione alla condizione bestiale. Con la sparizione del cibo è a rischio la sparizione dell’umanità. (Anthropos, la parola greca per definire l’uomo, lo nomina come ‘il guardante in alto’, il libero dal capo chino del brucare a terra). Primo Levi, a proposito della mancanza di cucchiai nel lager, non per questione di risparmio ma per espressa volontà di umiliazione cita l’episodio narrato nella Bibbia nel libro dei Giudici (Giudici, 7, 4-8). Gedeone sceglie i migliori tra i suoi, distinguendo su indicazione del Signore tra quanti lambiscono l’acqua inginocchiati a terra come fa il cane e prendendo quelli che bevono in piedi, recando la mano alla bocca.”
Il volume, corredato di una ricca bibliografia e sitografia, ospita nella parte finale – con un tocco di leggerezza e di ironia – una simpatica raccolta di settanta ricette in parte liberamente ispirate alle storie e alle memorie della Resistenza e in parte radicate nella tradizione gastronomica italiana. Ricette a base di prodotti genuini e popolari, legati a doppio filo ai luoghi in cui si concentrò la lotta dei partigiani. E i nomi dei piatti – veri o verosimili (tortelli della pancia piena, risotto per non pensare, pasticcio clandestino, stinco degli arruolati…) e spesso conditi di ironia – aiutano a comprendere ancora meglio l’anima di questo libro.
A questo punto non ci resta che accettare la sfida delle due giovani storiche: provare a cucinare qualcuno di questi piatti e proporli su cucinadigusto…