«Cucina siciliana di popolo e signori» di Martino Ragusa

“La cucina siciliana è una cucina funambolica, in bilico tra passato e futuro, opulenza e povertà, aristocrazia e popolo, tradizione e innovazione. La Sicilia si trova al centro di quel Mediterraneo a cui tutto il mondo ormai guarda come fonte di cibi e di saperi capaci di regalare al tempo stesso salute, tradizione e gusto. Pasta, olio d’oliva, verdure e pesce azzurro sono i quattro punti cardinali gastronomici validi ovunque.”

Queste parole dell’autore sul risvolto di copertina sono un’ottima sintesi del senso e dello spirito di questo libro di Martino Ragusa, anzi di questi libri, dal momento che dopo il primo volume, uscito nel 2016 e ristampato nel 2018, ne è uscito un secondo nel 2019.

Nato ad Agrigento nel 1951, Martino Ragusa è uno scrittore, gastronomo e giornalista italiano. Ha frequentato l’Università di Bologna, conseguendo la laurea in Medicina e chirurgia, poi la specializzazione in Psichiatria. Ha vissuto a Bologna per lungo tempo, fino agli anni 2000. Durante il periodo universitario ha condiviso l’appartamento con l’amico Patrizio Roversi, con cui poi ha lavorato per alcune trasmissioni televisive e la scrittura di libri.

Collabora con Linea Verde (Rai 1) in qualità di esperto, con i mensili “Bargiornale”, “Il Test-Salvagente” e “Ristoranti-Imprese del Gusto. Sul suo blog scrive soprattutto di cucina, pubblicando numerose ricette della cucina siciliana, italiana e internazionale.

Attualmente vive a Ribera, in Sicilia “fra ulivi, orto e galline”.

Prima di parlare delle ottime ricette proposte da Ragusa vale la pena soffermarsi sulla presentazione generale della cucina siciliana che l’autore offre nell’introduzione al primo volume.

Quattro gli aspetti particolarmente significativi messi in evidenza.

In primo luogo l’autore sottolinea la compatibilità e versatilità della cucina tradizionale siciliana e dei suoi ingredienti con uno stile alimentare mutato che ha messo in crisi altre cucine come ad esempio la cucina francese classica con le sue preparazioni “stracolme di grassi animali e salse burrose capaci ormai di ricordare solo calorie in eccesso e accidenti cardiovascolari”.

In secondo luogo – ed è l’aspetto più interessante dell’introduzione – la sua analisi si concentra sul melting pot che caratterizza la cucina dell’isola proprio in forza della sua storia. Scrive Ragusa:

Sono qui a parlare di cucina, ma mi toccherà citare l’intenso melting pot etnico dal quale tutti noi siciliani discendiamo, così come dovrò disturbare la storia, l’antropologia, il paesaggio, la psicologia e il folklore. Durante i secoli l’isola è stata conquistata da Greci, Fenici, Romani, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Austro-Borbonici, Piemontesi. E non finisce qui. Perché alle dominazioni politiche si sono affiancate altre influenze meno aggressive e più squisitamente culturali. Importante è stata quella ebraica, specialmente per quanto riguarda l’elaborazione delle verdure e la preparazione delle frattaglie. Poi c’è stata – e c’è tuttora – l’influenza tunisina dovuta agli stretti rapporti tra dirimpettai nel Canale di Sicilia e che trova la sua massima espressione nel cous cous preparato a mano, con tempo e sapienza, nel triangolo compreso tra Pantelleria, San Vito Lo Capo e Trapani. Tutto questo, molto prima che diventasse di moda (quello precotto). E sono tante le somiglianze con la cucina genovese: il pesto trapanese è cugino di quello ligure, la farinata è imparentata con le panelle, le verdure ripiene sono fatte con ricette simili e il pesce azzurro è trattato allo stesso modo e con la stessa devozione (acciughe ripiene, acciughe fritte al pomodoro, polpette di acciughe). Questo strano gemellaggio è senz’altro dovuto alle affinità climatiche, ma soprattutto agli intensi scambi commerciali tra i porti isolani e quello di Genova. Come si sa, la Sicilia fu il granaio d’Italia e il primo grande laboratorio della pasta che proprio qui veniva sperimentata in nuove ricette e forme. Contemporaneamente a Genova sorgevano i primi grandi pastifici (siamo tra il 1200 e il 1300) che dalla Sicilia importavano grano e maestranze specializzate. In questa condizione di scambio anche i saperi gastronomici entrarono virtuosamente in un circuito arricchente per le due terre. Infine non vanno trascurati gli apporti della straordinaria cucina di Napoli che rimase unita a Palermo per secoli nel Regno delle Due Sicilie.
I siciliani si sono comportati come vere e proprie carte assorbenti verso i popoli con i quali sono venuti a contatto. Un po’ per meglio sopravvivere, un po’ per l’ospitalità greca, un po’ per naturale esterofilia e un po’ per la tendenza all’emulazione. Basta vedere come la cucina vegetariana sappia imitare quella carnivora, la cucina povera la ricca, i frutti di martorana la natura.
I siciliani hanno preso di tutto da tutti: cromosomi, vocaboli, stili di vita, e naturalmente cibi e pietanze, elaborando e arricchendo a ogni passaggio di dominazioni i piatti di una cucina che oggi si presenta ricca, fantasiosa e raffinata come poche altre.

Specialmente su queste basi spagnole, oltre che su quelle francesi del periodo Normanno e Angioino, la cucina baronale del sette-ottocento, infine, ha costruito i suoi sontuosi piatti elaborati fino al barocchismo dai celebri monsù (sicilizzazione di monsieur), i cuochi di origine francese che le famiglie nobili si contendevano persino a colpi di duello.

Il terzo aspetto indicato da Ragusa è rappresentato dalle numerose varianti più o meno ricche di molti piatti tradizionali in forza di un “va-e-vieni interclassista di ricette”, un esempio per tutti la caponata che partendo da una base povera di melanzane, pomodoro, sedano, cipolla, capperi e olive, può arricchirsi di asparagi, polipetti, pesce spada, bottarga, gamberi e perfino di preziose aragoste.

Il quarto e ultimo aspetto segnalato dall’autore riguarda la cucina dell’interno dell’isola, dove è rimasto più evidente “il rigore agro-pastorale della cucina ellenica che mette in primo piano i prodotti della terra e della pastorizia” e un grande utilizzo di verdure spontanee e di erbe aromatiche.

Ma veniamo ora al ricchissimo ricettario di questi due volumi: una miniera di quasi 450 piatti che Martino Ragusa ha provato e riprovato, assaggiato e offerto agli amici, prima di fotografarli e proporli nel libro. 

Di ogni ricetta viene indicato il nome siciliano (c’è sempre anche la ‘traduzione’ in italiano!), il contesto di riferimento e le sue caratteristiche, per passare poi all’indicazione precisa degli ingredienti e alla preparazione esposta in modo semplice e chiaro.

Oltre alle ricette tradizionali della cucina siciliana sono presenti alcune ricette innovative dell’autore a testimonianza della duttilità e della contemporaneità della cucina siciliana.
Non mancano i piatti per vegani e vegetariani. E non si tratta di adattamenti, come spiega Ragusa, semplicemente si fanno così. 

A questo punto non resta che sperimentare qualche ricetta insieme a cucinadigusto e verificare i risultati in tavola!

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